
Welcome to Afghanistan
Un anno di governo talebano
Un anno di governo talebano
Welcome to Afghanistan
“Abbiamo iniziato un attacco mirato contro l’Afghanistan, contro obiettivi militari e strategici dei talebani. Un attacco portato per sconfiggere i terroristi”. E poi: “Oggi siamo partiti dall’Afghanistan, ma non ci fermeremo qui. Le nazioni sono davanti ad una scelta, possono decidere se stare con il Bene o con il Male. Noi vogliamo portare la pace e per farlo dobbiamo annientare i terroristi e gli stati che li proteggono”. Era con queste parole che nell’ottobre del 2001 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America George W. Bush, a seguito dell’attacco alle Torri gemelle compiuto da Al Qaeda, annunciava l’inizio della guerra in Afghanistan. Sono passate due decadi da quando venne pronunciato questo discorso dal peso di una pietra d’inciampo nel corso della Storia e nulla di ciò che era stato predetto e paventato allora si è verificato. La guerra in Afghanistan si è conclusa con l’abbandono del Paese da parte delle forze occidentali e il ritorno al potere dei talebani. I combattenti islamisti, la personificazione del Male, sono tornati vittoriosi alla guida “della tomba degli imperi”, la bandiera dell’Emirato è stata issata e garrisce su Kabul e di nuovo, oggi come vent’anni fa, il mondo si è imbattuto nei talebani.

Ma nonostante vent’anni di guerra in Afghanistan costata, solo a Washington, 2261 miliardi di dollari, e che ha provocato la morte di 240mila persone, noi, sappiamo davvero chi sono oggi i talebani? Il leader supremo del gruppo è ora l’Amir al Mu’minin, la guida dei credenti, Haibatullah Akhunzada, poi, a tenere le redini della nazione c’è un esecutivo non eterogeneo che nel primo anno di potere ha mostrato diverse spaccature al suo interno. Due le maggiori forze politiche del governo talebano: la rete Haqqani, che fa capo a Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno, vicino ad Al Qaeda, ricercato dall’Fbi e con una taglia sulla testa di dieci milioni di dollari. E l’ala più pragmatica e tradizionalista del gruppo che vede nel mullah Yaqoob, figlio del Mullah Omar e ministro della Difesa, e nel mullah Abdhul Ghani Baradar, vice primo ministro, i suoi principali esponenti. E poi ci sono 100mila combattenti che governano una nazione di quasi 40 milioni di abitanti e che imbevuti di dogmi tenaci, soffocati da una propaganda semplice e infettati da chimere di revanscismo, fervorosi applicano un Islam che non ammette concessioni al presente.

“Io mi sono unito ai talebani quando avevo sedici anni, oggi ne ho 20 e sono un comandante. Ho fatto questa scelta perché il nostro Paese è stato invaso da forze straniere che hanno bombardato, torturato, ucciso famiglie, calpestato la nostra religione e infangato la nostra fede. Io ho combattuto e continuo a farlo per la mia gente, per la sharia, perché l’Afghanistan cresca e prosperi nel solco tracciato dal Profeta. Perché il Corano ci dice che dobbiamo partecipare al jihad, per l’Islam e per Allah”. Nel viso, Shiraaha Intezar conserva il ricordo del ragazzino che è stato. Lo sguardo è sincero, entusiasta, una peluria adolescenziale, maldestra imitazione delle folte barbe assire dei suoi capi, gli ricopre le guance e ogni sua dichiarazione è un omaggio all’inesauribile giustizialismo e splendore dell’Emirato.
“Da quando ci siamo noi in Afghanistan il crimine sta scomparendo, la corruzione che prima infestava il Paese adesso non c’è più, stiamo combattendo contro il traffico di droga e abbiamo messo al bando la coltivazione del papavero da oppio”. Shiraaha supervisiona la distribuzione degli aiuti umanitari in uno dei quartieri centrali di Kabul. Mentre centinaia di donne coperte dai burqa e di uomini appoggiati a carriole e carretti attendono il loro turno per ricevere la propria razione di alimenti, Shiraha intanto controlla che nessuno rubi le derrate, che non si verifichino incidenti e il kalashnikov che porta a tracolla lo ostenta con orgoglio perché è attraverso il suo fucile automatico che ha acquisito il diritto di vivere a ritroso, in un passato che qualcuno gli ha insegnato glorioso e che lui si immagina empireo. “Io sono andato a scuola, in una madrasa, ho studiato il Corano e ho combattuto e sono un grande mujaheddin”. È questa la sintesi della storia del giovane comandante talebano che ha trascorso la sua vita prima subendo la guerra, e poi combattendola in nome di un provvidenzialismo assoluto e intransigente che l’ha spinto al di là dell’argine della paura e della critica.

Shiraaha é un ragazzo afghano che non ha visto altro se non armi, ha ascoltato soltanto esplosioni, ha imparato a recitare il Corano ancor prima di sapere leggere e ha conosciuto solo ingiustizie arrivando al punto da non poter aver più ripensamenti e di divenire anch’esso un esecutore in armi che, solo nell’irrazionale del fanatismo, ha trovato il viatico per saldare i conti in sospeso coi torti del passato. “Voi continuate a dire che noi siamo terroristi e per questo non riconoscete il nostro stato. Ma siete stati voi a uccidere più di 50mila cittadini afghani e a bombardare questo Paese. E adesso noi vogliamo soltanto governare attenendoci al rispetto delle leggi del Corano, aiutando la popolazione, rispettando i diritti di tutti, compresi quelli delle donne che voi dite che noi violiamo ma che invece noi tuteliamo perché indichiamo loro la strada che devono perseguire per vivere secondo le regole dateci dal Profeta”. È un credo tautologico che non ammette repliche e non accetta argomentazioni quello di Shiraaha e di altre migliaia di mujaheddin che in shalwar kameez, sandali e Ak-47 pattugliano le strade della capitale.

Il caldo scioglie l’asfalto delle arterie di Kabul, in piazza Massoud, quasi in sfregio alla memoria del leone del Panjshir, è stata dipinta una pantagruelica bandiera dell’Emirato e un bambino vende adesivi e gagliardetti del nuovo governo in mezzo a un traffico congestionato. Le donne, anche se non è obbligatorio ma fortemente raccomandato, indossano i notori burqa e sui taxi pubblici sono costrette a viaggiare nel bagagliaio se a bordo della vettura vi si trova un uomo che non è il loro marito.

Sui muri di quelle che furono le basi delle forze occidentali, e che oggi ospitano i ministeri del nuovo governo, campeggiano murales che celebrano la vittoria dei talebani e intanto, mentre le forze dell’esercito presidiano e istituiscono checkpoint, gli uomini della polizia religiosa, vestiti di bianco e con a tracolla gli M16, zelanti , si adoperano affinchè vengano rispettati i dettami del Libro Sacro. I custodi della morale perlustrano tutte le vie della città, sui mezzi pubblici si accertano che le donne viaggino coperte dagli hijab, imbrattano di vernice le vetrine dei barbieri e dei negozi di moda dove sono ritratti dei volti femminili, controllano i locali pubblici accertandosi non venga somministrato nessun tipo di alcolico, ascoltano e derimono anche i problemi famigliari, hanno occhi e orecchie ovunque e sono il braccio armato di uno dei più temuti e discussi organi del nuovo esecutivo afghano: il Ministero della Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù.

“Il nostro incarico è estremamente importante perché ci è stato affidato direttamente dal Profeta”. E’ in questo modo che il portavoce del Ministero della Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù Hakif Mohaj Mohajir ci spiega il perché della rilevanza del suo incarico all’interno del nuovo governo. La bandiera dell’Emirato occupa l’intera parete alle sue spalle, i nuovi volantini che ricordano di indossare il velo integrale sui mezzi pubblici, freschi di stampa, sono visibili sula scrivania ed è proprio dalla questione femminile che il leader talebano decide di incominciare l’intervista: “Io sono sicuro che non esista alcun Paese al mondo in cui i diritti delle donne sono rispettati e difesi come in Afghanistan. Ovunque nel mondo voi sentite di stupri e violenze contro le donne. Qua in Afghanistan, da quando ci siamo noi al potere, non accade più nulla di tutto questo”. Proseguendo il portavoce del ministero ha aggiunto “I poliziotti di questo Ministero sono buoni e gentili con la popolazione. Loro invitano la gente a non fare quello che non è accettato dall’Islam e invitano a fare invece quello che è giusto per l’Islam. Noi non puniamo con pene corporali le persone che non rispettano la legge del Corano. Noi abbiamo un protocollo al quale ci atteniamo. La prima volta che una persona viene sorpresa a non rispettare le regole le spieghiamo perché ciò che sta facendo è sbagliato. La seconda volta, di nuovo, le spieghiamo perché non è corretto. La terza volta la minacciamo, la quarta riceve un’ammonizione , la quinta viene condotta in tribunale”. Chiedendogli poi quali siano le più grandi differenze con il primo Emirato e se la violenza, ancora, sia considerata uno strumento legittimo per far rispettare la legge e punire i trasgressori, a quel punto la replica arriva caustica e accusatoria: “Gli Stati Uniti e l’occidente pensano che noi siamo i cattivi e i terroristi. Non è vero nulla. Noi rappresentiamo il popolo afghano e poi chi ha congelato i fondi del nostro Paese provocando una crisi economica che ad oggi sta soffocando le famiglie afghane, sono stati gli Usa. Questo non è un atto violento?”.

Sta per scendere la sera e la piazza Shahid Dan, la piazza dei martiri di Kandahar, è affollata di persone e i banchetti degli ambulanti vendono frutta e dolciumi per la “festa del sacrificio”. Dalle macellerie halal sgorgano rivoli di sangue dovuti all’uccisione degli agnelli e intanto decine di bambini giocano per strada. Indossano tutti il tradizionale shalwar kameez, corrono in sandali, alcuni hanno gli occhi truccati con il kajal, tutti impugnano un kalashnikov giocattolo. Simulano gli spari, corrono, saltano e giocano alla guerra imitando i loro padri e i loro fratelli maggiori. “Io da grande sarò un mujaheddin”, grida un bambino tra le risa divertite degli adulti che lo invitano a mettersi in posa, davanti all’obiettivo della videocamera, con il suo fucile giocattolo e il dito indice alzato. E rimane questa l’istantanea capace di riassumere l’essenza dell’Afghanistan.
TRASPARENCY
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