L’ordine di attaccare l’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq, sarebbe arrivato direttamente da Donald Trump. Almeno questa è la versione fornita dal Pentagono. Il raid ha provocato la morte di dieci persone, cinque iracheni e altrettanti iraniani. Tra questi ultimi spicca il nome del generale Qassem Soleimani, capo delle milizie al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, cioè della forza d’élite dell’esercito della Repubblica islamica. La stessa incaricata di effettuare operazioni all’estero.

Soleimani non era solo uno degli uomini più potenti dell’Iran. Era temuto e rispettato anche in Medio Oriente, nel Golfo Persico e perfino in Asia, gestiva inoltre con sagacia la politica estera di Teheran e varie questioni interne. L’abile stratega, poi, non ha mai nascosto la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei e all’ala più conservatrice della politica iraniana. Nel 2018, pochi mesi dopo che Trump decise di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare siglato con l’Iran nel 2015, Soleimani ringhiò contro Washington rilasciando parole inequivocabili: “Vi stiamo addosso. Arriviamo dove neanche vi potete immaginare. Noi siamo pronti. Se inizierete la guerra noi la finiremo”.

Ostacoli da eliminare e pressioni da alleggerire

Insomma, Soleimani non era certo un tipo facile da addomesticare. Trump se n’è accorto subito: le sue frasi a effetto sull’Iran riuscivano a incantare mezzo mondo tranne il generale. Pare inoltre che il presidente americano avesse intenzione di stringere un nuovo accordo con Teheran ma lui, Soleimani, non credeva agli yankee, tanto meno voleva fidarsi del tycoon. Da un certo punto di vista il capo di al-Quds rappresentava quindi una sorta di ostacolo tra la pazza idea diplomatica più volte ventilata da Trump e l’interesse da questa suscitata nella parte più riformatrice della politica iraniana. Questa potrebbe essere una valida attenuante per Washington, anche se vale la pena fare altre due considerazioni. La prima riguarda l’Impeachment.

In patria Trump è pressato da una grana che rischia di rovinargli l’immagine in vista delle prossime elezioni presidenziali, previste il prossimo novembre. Dal momento che il popolo americano, nei momenti di massima tensione internazionale del loro Paese, è solito ricompattarsi dietro al presidente – soprassedendo sulle divisioni tra Repubblicani e Democratici – la polveriera Iran potrebbe effettivamente alleggerire la pressione che sta schiacciando The Donald.

Una mossa a effetto?

L’altra considerazione affronta invece uno scenario ancora più ipotetico ma non del tutto remoto. Trump ama focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su un determinato problema, lasciando intendere che quello è il primo nodo da sciogliere sulla lista di Washington. Il modus operandi è bizzarro ma spesso identico, visto che il presidente, nel bel mezzo della discussione sul citato tema – nel frattempo diventato caldissimo – si concentra su un altro dossier, proponendo una soluzione a effetto su quest’ultimo, lasciando in sospeso tutto il resto.

Nel nostro caso, il tycoon potrebbe aver dato l’impressione di volersi occupare dell’Iran per poi annunciare dal nulla un nuovo incontro con Kim Jong-un o un accordo con la Corea del Nord. Sia chiaro: nel caso in cui Trump avesse agito senza alcuna strategia, Washington rischia davvero di ritrovarsi in guai seri. L’Iran ha infatti annunciato al mondo di essere pronto ad agire per vendicare “l’attentato terroristico” organizzato dal governo americano. La tensione resta altissima.