In uno scenario mondiale di intolleranza crescente, la Gran Bretagna – terra che ha fatto del melting pot la sua grande forza – oggi non sembra fare eccezione.

Certo, i toni della campagna elettorale, che si concluderà con il voto del 12 dicembre, non aiuteranno a sminare le tensioni già esistenti né tanto meno le crescenti accuse di razzismo nei partiti; anzi, delle due, contribuiranno ad accentuarle parecchio.

A poco più di una settimana dal via, gaffes, figuracce e dichiarazioni dai profili inquietanti non sono mancate e la grande piazza dei social network ha amplificato il tutto, senza fare sconti.

Il fenomeno, secondo alcuni osservatori, va ricondotto anche alla scelta progressiva dei leader dei due principali schieramenti di rompere gli indugi e spingere i loro partiti verso le posizioni più estremiste. Verso destra i Conservatori del populista Boris Johnson, ancora accusato di islamofobia e maschilismo; verso sinistra i Labour guidati dal socialista, in salsa anni Settanta, Jeremy Corbyn. Quest’ultimo, in quattro anni di fronte aperto, non è ancora riuscito a spegnere le accuse di antisemitismo nei suoi confronti, oggi condite anche di anti induismo.

A tutto questo va aggiunto che, schiacciati, isolati o semplicemente cacciati via, i cosiddetti moderati e centristi hanno smesso di riconoscersi nei due principali partiti che stavano cambiando pelle. Alcuni di loro correranno da Indipendenti, alcuni hanno deciso di veleggiare verso altri lidi – il più gettonato è quello dei Liberal democratici – altri, infine, hanno deciso di non correre più.

Esiste poi un altro fattore a complicare questa delicata situazione di crescente intolleranza e che contribuisce ad accentuarne i difetti. La velocità con la quale sono state convocate le urne e la conseguente fretta che ha spinto i partiti a selezionare i candidati da piazzare nei diversi collegi, ha già mostrato tutti i suoi limiti. Molti gli scheletri nascosti negli armadi di alcune tra queste persone miracolate dalla politica. I partiti fanno spalluccia e si scusano, ma i danni sono pressoché fatti. Vediamoli.

Le accuse di antisemitismo per Corbyn

Chi pensava, o sperava, di archiviare le accuse di razzismo e antisemitismo esplose negli ultimi tempi nel partito dei Laburisti inglesi – e soprattutto nei confronti del suo leader Jeremy Corbyn – attraverso l’istituzione di commissioni d’inchiesta, è rimasto deluso. E l’arrivo della campagna elettorale ha fatto il resto.

Questo tema è una bomba tra le mani del partito di Corbyn e i suoi tentativi di togliersi di dosso questa etichetta sono finora risultati deboli quanto inefficaci. L’istituzione della commissione ad hoc dei Laburisti, che si sono impegnati ad assumere un codice di condotta trasparente contro ogni profilo di antisemitismo, sinora è valsa a poco. L’accusa dei detrattori evidenzia come, nel solo 2018, il partito abbia ricevuto più di 800 segnalazioni di casi riconducibili ad antisemitismo e che solo un centinaio di queste siano state prese seriamente in esame.

Decisamente più forte è stato invece l’effetto di quanto pubblicato dal quotidiano Israel Hayom (Israel Today, scritto in ebraico), ovvero che se Corbyn vincesse le prossime elezioni, il 50% degli ebrei residenti nel Regno Unito lascerebbero immediatamente il Paese. Non bastasse questo, un sondaggio condotto dal Jewish Leadership Council spiega come l’87% degli ebrei inglesi sia convinto che il laburista sia un antisemita e che per questo vada assolutamente scongiurata l’ipotesi di una sua futura premiership (a spiegazione di ciò, ci sono anni di accuse nei suoi confronti che hanno portato anche ad organizzare una manifestazione per denunciare l’antisemitismo nei Labour; va ricordata la contrarietà di Corbyn alla richiesta di rimuovere un murales dai contenuti giudicati antisemiti, o quella volta in cui riferendosi a più di 1.000 terroristi condannati dal governo israeliano che li ha poi rilasciati per uno scambio di prigionieri, lui ha parlato di “fratelli”, così come “amici” sono per lui i membri delle note organizzazioni terroristiche Hezbollah e Hamas). Insomma, negli ultimi quattro anni, Corbyn è accusato di aver diffuso in Gran Bretagna l’antisemitismo “come un cancro”.

Lui ha tentato di gettare acqua sul fuoco. “Gli ebrei non devono avere alcuna paura”; se i Labour vinceranno le elezioni, “razzismo e antisemitismo continueranno ad essere considerati il male della nostra società. Così è sempre stato e sempre così sarà”, la difesa del leader dei Labour.

I rabbini inglesi boicottano i Labour

Ultimo atto di questa annosa vicenda è la decisione del rabbino Jonathan Romain di scrivere una lettera aperta alle famiglie che frequentano la sua sinagoga a Maidenhead, comunità di 58.850 anime nella contea del Berkshire. Per la prima volta, i fedeli si sono visti recapitare un chiaro appello al voto. Senza usare mezzi termini, il Rabbino ha invitato circa 820 famiglie a non votare per i Labour con una motivazione che non lascia spazio a dubbi. “Se vinceranno loro e ci sarà un governo guidato da Corbyn, la vita degli ebrei sarà messa a rischio”.

In una lunga lettera pubblicata sul Daily Mail, Romain ha anche aggiunto di non essere stato l’unico a prendere questa decisione, perché la sua scelta di non restare in silenzio è stata emulata anche da altri rabbini inglesi.

Romain ha quindi spiegato che il problema non è il partito in sé; i Labour hanno “a lungo dimostrato di aver lottato contro pregiudizi e discriminazioni”. Il problema per la comunità ebraica è l’eventualità di un governo Labour guidato Jeremy Corbyn. Da qui, l’invito a votare in ogni collegio (Constituency) “liberamente”, per qualsiasi partito, purché non sia il suo.

A sostegno di questa battaglia, è intervenuto anche il quotidiano The Jewish Chronicle con un suo appello: “Se anche tu pensi che un governo guidato da Corbyn metterà a rischio la tua vita e la tua sicurezza e magari aprirà a una legislazione che potrà minare le libere relazioni con Israele, allora vota chiunque altro ma non i Labour”. Questa la sua prima pagina.

E a surriscaldare gli animi, poi, mancavano solo le recenti accuse nei confronti del Ministro-ombra Dan Carden, accusato di avere intonato cori antisemiti durante una gita in pullman. Carden, al testo della canzone dei Beatles “Hey Jude”, avrebbe sostituito le parole “Hey Jews”. Una tempesta nel momento più delicato e che il diretto interessato ha fortemente negato.

E che dire del messaggio che sarebbe stato diffuso via Whatsapp ai cittadini Hindu invitati a non votare Labour perché un partito guidato da un leader “anti India e anti Hindu” e vicino al governo del Pakistan? Ce n’è per tutti.

Tony Blair fa la sua parte 

Lo scorso febbraio, la deputata Luciana Berger ha lasciato il partito per unirsi a Change UK condannando l’atteggiamento dei Laburisti. Secondo la deputata, lei stessa ebrea, nonostante le rassicurazioni ricevute, il partito non avrebbe mai mostrato il giusto atteggiamento di fronte alla questione. Sulla base di queste accuse, la Commissione per le Uguaglianze e i Diritti Umani ha aperto un’inchiesta formale.

Oggi, candidata alle politiche con i Liberal Democratici, la Bergen si è guadagnata il pubblico sostegno da parte dell’ex premier Tony Blair che le ha augurato di ottenere un grande risultato elettorale.

E lo stesso Blair ultimamente è finito in mezzo a questa guerra condotta a suon di razzismo e intolleranza. A tirarlo in ballo, una deputata Labour che ha annunciato che avrebbe celebrato la sua morte comparandola a quella di Adolf Hitler, salvo poi scusarsi.

Le accuse di razzismo e sessismo contro i Tories

Se, come ampiamente dimostrato, la questione Brexit rappresenta il vero dirimente nelle scelte di un elettorato inglese mai così volatile, il tema delle minoranze riacceso in questa campagna elettorale ne rafforzerà l’incertezza. Che dire, ad esempio della necessità dei cittadini ebrei di vedere rappresentate le proprie istanze quando la stragrande maggioranza di loro è favorevole a restare in Europa e in UK, ma con un governo considerato “amico” e rispettoso della loro identità?

E qui si apre una delle argomentazioni che poi è anche l’arma di contrattacco dei Labour: Boris Johnson è populista e razzista e, con un partito ormai spinto più che mai verso destra, è accusato anche di essere islamofobico.

Ancora non sono digerite le parole scritte su un libro da lui redatto nel 2007, dal titolo “The Dream of Rome”,  nel quale asseriva che la religione ha lasciato i Musulmani indietro di secoli rispetto al mondo Occidentale.

Per non parlare di quando, un anno fa, paragonò le donne islamiche che indossano il velo alle buchette delle lettere o, peggio, a dei rapinatori mascherati. Nella sola settimana successiva, secondo quanto riportato dal gruppo di monitoraggio Tell Mama, gli incidenti legati a fenomeni di islamofobia sarebbero cresciuti del 375%.

Ma senza andare troppo indietro nel tempo, di questi giorni è la denuncia della Baronessa Sayeeda Warsi, ex co-presidente del partito Conservatore (negli anni dal 2010 al 2012), avvocato e oggi membro della Camera dei Lords. “Il clima per i musulmani britannici nel partito Conservatore è ostile”, le sue parole di condanna. Da qui la richiesta di una commissione d’inchiesta indipendente atta a dimostrare e punire atteggiamenti islamofobici all’interno del partito accusato anche di non aver affrontato la questione con la serietà dovuta. 

Il punto evidenziato dalla denuncia della Warsi è che, se i Tories sono tanto attenti a sottolineare i difetti e le derive razziste degli avversari, non sono altrettanto onesti quando c’è da indagare se le stesse derive esistano al loro interno, “partendo dal presupposto che esistono”.

Le accuse di razzismo nei confronti delle minoranze qui fanno il paio con le accuse di machismo che i Conservatori hanno incassato nelle ultime fasi del loro governo. Molte deputate, anche storiche, sono state costrette ad andarsene o “gentilmente” accompagnate alla porta. Non sono mancate denunce e polemiche e molte di loro, in tutta risposta, hanno deciso che non si candideranno alle prossime elezioni perché non in linea con il partito “dell’Uomo Alfa”. Così lo ha definito l’ex segretario di Stato ed ex Ministro per le Politiche di Genere, Amber Rudd, sempre critica nei confronti del linguaggio usato da Johnson accusato anche di “istigare alla violenza”.

Restando in tema di donne, la stessa Theresa May, che ha annunciato di ricandidarsi , dovrà mandare giù molti bocconi amari per essere convincente nel sostegno al partito guidato da quel Boris Johnson del quale ben poco condivide. E non ne ha fatto mai mistero.

Il sondaggio del ThinkTank Onward avrebbe infine dimostrato che tra le giovani donne solo l8% voterebbe i Tories, mentre lo voterebbe il 22% dei giovani maschi.

Per far fronte a questo rischio di un partito troppo maschile (oltre che maschilista) i Tories, all’ultimo minuto, stanno cercando di rimediare paracadutando molte candidate donne nei seggi più sicuri.

Un leader forte non potrà garantire la vittoria

Naturalmente, come in ogni elezione che si rispetti, il partito vincitore verrà decretato dal maggior numero di collegi conquistati dai singoli candidati; così accade in un sistema elettorale maggioritario dai collegi uninominali, first-past-the-post, come quello inglese.

Le tendenze evidenziate dall’ultimo sondaggio pubblicato da YouGov e relativo all’11 e 12 di Novembre, vedono i Tories al 40% e i Labour al 28%  tallonati dai Liberal Democratici al 15%. Quindi, di nuovo, a fare la differenza saranno le performance dei candidati nei diversi collegi. E questo, come abbiamo visto, ha i suoi pro e i suoi contro.

La prospettiva di trovarsi di fronte ad un altro parlamento sospeso (hung parliament) è sempre all’orizzonte, così come la speranza dei Labour di vincere perchè consapevoli di non aver bisogno di conquistare tantissimi seggi per farlo. A loro basterebbe che i Conservatori di Boris Johnson non raggiungano un’ampia maggioranza, a quel punto, una nuova coalizione potrebbe formare il prossimo governo e mandare un nuovo inquilino a Downing Street.

A tal proposito, voci di Palazzo avrebbero lasciato trapelare la notizia che ci sarebbero persone al lavoro per fare sì che non sia Corbyn l’inquilino designato da questa possibile maggioranza arcobaleno.

Questo spiegherebbe anche perché la leader dei Liberal Democratici, Jo Swinson, vada ripetendo con tanta certezza di essere candidata a primo ministro a fronte di un numero di consensi ancora così lontano da poter rendere questa possibilità almeno plausibile.