Sicurezza, sostenibilità e competitività sono le tre incognite dell’energia. Ogni paese al mondo vorrebbe dominare questi tre elementi. Risolvere l’equazione significa avere bollette basse, costi dell’industria più convenienti, prodotti sugli scaffali meno cari, maggiore influenza in campo internazionale. C’è una risorsa che soddisfa tutte e tre le componenti di questo dilemma: il gas. Stoccabile in grandi quantità, meno inquinante rispetto al petrolio, “l’oro blu” è oggi la fonte di energia più a buon mercato dopo il carbone. L’Italia è messa bene: ne produce pochissimo, anzi quasi niente, ma si trova al centro dell’Europa e ha la possibilità di diversificare le sue fonti. Mentre i paesi dell’est dipendono al 100 per cento dal gas russo, l’Italia può far arrivare il metano non solo da Mosca, ma anche dal Mare del Nord e dal sud del Mediterraneo attraverso i gasdotti. Ma c’è un problema: queste condutture sono già in declino e in futuro sarà sempre peggio.

Algeria, Libia, Tunisia, Marocco ed Egitto hanno una fortissima crescita demografica e, con l’eccezione del Cairo, non hanno compiuto nuove scoperte, quindi arriverà sempre meno gas dal Nord Africa. Arriverà meno gas anche da nord: il Regno Unito, tradizionale produttore ed esportatore di gas, ha finito le sue riserve e sta importando, passando da esportatore verso il continente a importatore. I Paesi Bassi hanno deciso di chiudere l’enorme giacimento di Groningen, il più grande d’Europa, già a partire dal 2022. Con il progressivo accantonamento del carbone, la domanda di gas naturale crescerà e il declino della produzione europea dovrà essere compensato dalle importazioni. Le fonti rinnovabili possono contribuire a colmare questo gap, ma non sono ancora sufficienti e soprattutto non sono convenienti: stoccare il gas naturale costa circa 5 euro a megawattora contro i 200 euro a megawattora delle batterie.

Che fare dunque? La chiave è giocare d’anticipo investendo in nuove aree dove c’è molto gas: Israele, Cipro, Egitto, ma anche Azerbaigian, Turkmenistan e Kurdistan. La corsa all’oro blu è iniziata e nel Bacino del Levante si sta già combattendo una guerra a colpi di zone economiche esclusive, trivellazioni in acque sempre più profonde e manovre navali al limite della provocazione. L’Egitto sta lavorando insieme a Israele e Cipro per formare un “polo” energetico nel Mediterraneo orientale. Un piano ambizioso, teso a sfruttare gli impianti di rigassificazione sulla costa egiziana come snodo per il commercio di energia verso l’Europa e non solo. Grazie al canale di Suez, il metano potrebbe finire nei mercati asiatici facendo concorrenza a un gigante del settore come il Qatar, rivale politico ed economico del Cairo al pari della Turchia. Doha e Ankara, infatti, sono i principali sostenitori dell’Islam politico che incarna i principi della Fratellanza musulmana, gruppo considerato fuorilegge e terrorista dall’Egitto e dai suoi sponsor: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, il quartetto arabo a cui potrebbe presto aggiungersi anche il Kuwait.

Le autorità egiziane hanno lanciato nei mesi scorsi l’East Mediterranean Gas Forum (Emgf), astuta iniziativa di diplomazia economica che annovera una discreta stuola di paesi compratori, acquirenti, intermediari o semplicemente interessati al quadrante del Mediterraneo Orientale. Alla seconda riunione ministeriale del 29 luglio scorso hanno partecipato rappresentanti di Italia (presente il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico, Andrea Cioffi), Israele, Grecia, Cipro, Autorità nazionale palestinese, Giordania, Francia e Stati Uniti. Come riportato da Agenzia Nova, Washington ha mandato in Egitto il suo massimo esponente del settore, il segretario all’Energia Usa, Rick Perry, a conferma dell’importanza riservata all’iniziativa dall’amministrazione statunitense. La presenza allo stesso tavolo di rappresentanti israeliani e palestinesi è peraltro un fatto di rilievo, che aumenta il prestigio di un appuntamento sì “tecnico” ma dal profondo significato politico.

Rilevante è anche la notizia che Israele tornerà a breve ad esportare gas in Egitto con un flusso stimato di circa 7 miliardi di metri cubi all’anno, grazie all’avvio della produzione del giacimento di gas Leviathan prevista entro fine anno. Nel 2012, infatti, l’Egitto aveva chiuso le valvole del gasdotto Arish-Ashkelon a seguito di una serie di sabotaggi da parte dei gruppi terroristici islamisti. Estromessi i Fratelli musulmani dal potere nel luglio del 2013, i militari egiziani hanno gradualmente – quanto silenziosamente – riallacciato i rapporti con lo Stato ebraico a cui hanno perfino appaltato una fetta importante della propria sicurezza nazionale permettendo incursioni israeliane nel Sinai settentrionale. Il Cairo ha poi stretto un accordo con Nicosia per collegare il giacimento di Aphrodite alle strutture di Idku, a est di Alessandria, mediante un gasdotto sottomarino di circa 300 chilometri e una capacità di quasi 8 miliardi di metri cubi che dovrebbero essere estratti entro il 2024-2025. In lizza per la posa dei tubi dovrebbe esserci anche l’italiana Saipem, tra i leader mondiali del settore. Senza contare che il paese delle piramidi, grazie alle recenti scoperti offshore come il giacimento super-gigante di Zohr (trovato e messo in produzione da Eni in tempo record), si è trasformato da importatore netto a paese esportatore di energia.

La strategia del triumvirato Egitto-Israele-Cipro si scontra però con i piani del “sultano” Recep Tayyip Erdogan. La Turchia promuove infatti una rotta concorrente che dovrebbe portare in Italia il gas estratto in Azerbaigian attraverso l’Anatolia fino alla Grecia, dove inizia il Gadotto Trans-Adriatico (Tap) che dovrebbe approdare in Puglia. Ankara non tollera di essere esclusa dallo sfruttamento delle risorse del Mediterraneo orientale e sta conducendo manovre sempre più aggressive nella regione, scortando con le fregate militari le navi perforatrici nella cosiddetta Zona economica esclusiva (Zee) di Cipro. L’isola è divisa dal 1983 in due entità: la Repubblica di Cipro, Stato membro dell’Unione Europea, e l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord riconosciuta solo dalla Turchia, che occupa circa il 37 per cento del territorio, in seguito all’invasione del luglio del 1974. Nonostante la ripresa dei negoziati mediati dalle Nazioni Unite nel 2015, la questione cipriota resta in una fase di stallo. Nelle scorse settimane il Consiglio europeo ha deciso di sospendere i colloqui di alto livello con la Turchia nel tentativo di punire la condotta di Ankara al largo di Cipro. Ma la Turchia ha risposto annunciando l’invio di una nuova nave perforatrice, la Mta Oruc Reis.

Si tratta per ora di una minaccia a vuoto, dal momento che l’imbarcazione turca è ancora ormeggiata al porto di Istanbul. I turchi però non scherzano come insegna la vicenda della nave Saipem 12000, bloccata dalle navi militari turche nel febbraio del 2018 e costretta ad interrompere le attività di perforazione per conto di Eni nel blocco 3 nelle acque della Zee di Cipro. A oltre un anno di distanza, il ministro dell’Energia cipriota, Giorgos Lakkotrypis, in un’intervista rilasciata al magazine About Energy, ha dichiarato che il comportamento di Ankara può essere contrastato attraverso iniziative come l’East Med Gas Forum: “Ho spiegato ai miei colleghi la serietà della situazione e la gravità delle violazioni turche. Abbiamo inoltre reiterato il nostro impegno per continuare a collaborare a livello bilaterale, trilaterale e multilaterale: vogliamo lavorare insieme a paesi che si rispettano tra loro e soprattutto che rispettano le leggi internazionali”.